Tu di che vaccino sei?

Regola numero uno per ogni sociologo: la realtà sociale è bizzarra, stravagante, capricciosa, spesso tragicomica. Il che spiega due cose: la prima, che a causa della sua imprevedibilità,  resta difficile  controllarla, soprattutto dall’alto; la seconda, che spesso si ignorano le straordinarie capacità di adattamento dell’uomo, anch’esse, di riflesso, inaspettate, quindi  non prive di originalità, persino dove manchi,  come in un campo di concentramento,  qualsiasi idea o pratica di libertà.

Si rifletta sul  punto. Come provano ottimi studi al riguardo,  nell’universo mentale concentrazionario  i prigionieri,  non pensano  più a fuggire, ma a condurre una parvenza di vita normale, magari ai limiti della sopravvivenza, concentrandosi sui problemi come il cibo, la salute, eccetera. Il famoso romanzo  di  Solženicyn sulla giornata all’interno di un Gulag, del prigioniero Ivan Denisovič  la dice lunga, meglio di qualsiasi studio sociologico, su come gli uomini pur di sopravvivere, quindi di ottenere una specie di passaporto per la normalità, anche a se a livelli piuttosto ridotti, siano capaci di tutto.

E qui veniamo al punto: i vaccini.  Non abbiamo dati precisi al riguardo,  ma, fiuto sociologico o meno, riteniamo che la maggior parte degli italiani sia  disposta a vaccinarsi pur, come si sente ripetere, di farla finita con il virus. Anche perché questo  è il risultato che  le cosiddette autorità si prefiggono o promettono prefiggersi. Perché, in realtà,  dicono e non dicono, perché tecnici e politici, in fondo, ne sanno ancora poco. Però devono fingere di saperla lunga.  Del resto dopo un anno abbondante di segregazione,   gli italiani,  assetati di normalità,  si sforzano di  vedere il bicchiere mezzo pieno… Diciamo che sono vulnerabili.

Pertanto, nel Gulag Italia ( o quasi) al centro della discussione pubblica, nel senso più largo possibile, fin dentro le famiglie,  non ci si interroga più sulla mancanza di libertà,  ma su come recuperarla vaccinandosi.  Il vero problema che sta a cuore alla gente  non è più quello di  non ammalarsi ( o non solo comunque),  ma di assicurarsi  a ogni costo una parvenza di ritorno alla vita normale, grazie anche  al cosiddetto passaporto vaccinale.  Perché  una volta vaccinati, come si ripete,  si potrà uscire dal Gulag Italia, almeno una volta al giorno…

Insomma, gli italiani si sono perfettamente adattati (o quasi)  a una specie di socialismo sanitario che presume di sapere perfettamente  cosa sia  bene per ogni singolo cittadino.  Di qui, la facile quanto inevitabile istituzione, da  parte del governo,  di regole militari, fasce sociali, protocolli di distribuzione delle dosi, ventagli vaccinali secondo l’età dei soggetti, eccetera, eccetera. Il solito apparato dello stato autoritario. Fino a qualche fa anno impensabile.

E come si comportano gli italiani di fronte a tutto questo? Discutono sul vaccino migliore e  su come  perseguire la via più breve per vaccinarsi, magari, secondo l’antico principio del  “se conosci qualcuno”.  Inoltre si vanno formando gerarchie di più fortunati e meno fortunati  in base al tipo di vaccino inoculato.  La domanda più ricorrente, mentre si trangugia un caffè in mezzo alla strada,  è questa:  “Tu di che vaccino sei?”.

Si noti  – brutta notizia per i socialisti  –   come le gerarchie sociali tendano sempre  a riformarsi intorno a qualsiasi tipo di distribuzione di beni,  anche quando dichiaratamente pubblica, come nel caso del vaccino . Quindi in teoria   – sempre secondo statalisti e socialisti –  frutto di una  distribuzione ugualitaria.   Salvo, come inevitabile, per la “categorie protette”…  Insomma, eccetto che per i carcerieri e gli  amici dei carcerieri…

La libertà è un bene prezioso, ma l’uomo si adatta a vivere anche senza di essa. Vuole normalità e  sicurezza a ogni costo, cosa che viene  facile  per le sue  capacità di adattamento. E non importa a quale livello di vita, anche il più degradato.

Pertanto, concludendo, l’italiano medio (ma il concetto potrebbe essere esteso all’uomo sociale in genere)  non si  interroga più  sulla perdita della propria libertà oppure   sulla scelta di vaccinarsi o meno,  ma su come convivere, quindi adattarsi a una specie di socialismo sanitario di stato,  pur di recuperare, ripetiamo, una parvenza di libertà. Di qui, l’epocale interrogativo: “Tu di che vaccino sei?”.      

Il che, come dicevamo all’inizio,  è tragico e comico al tempo stesso.

Carlo Gambescia