Maria Antonietta, un film…

Da aspirante sociologo affamato di storia, ricordo di aver seguito nei lontani anni Settanta i corsi di storia moderna del professor Armando Saitta, un socialista obiettivo, soprattutto storico serio e docente severissimo.

Da lui imparai una cosa fondamentale: che la Rivoluzione francese aveva il carattere del grande nodo storiografico, non ancora sciolto alla luce delle molteplici e opposte interpretazioni di quella che Croce chiamava “storiografia di tendenza” – di parte politica, insomma – che faceva capolino persino dietro le più togate e insospettabili pagine storiografiche.

Le lezioni del professor Saitta ancora oggi mi accompagnano intellettualmente. Improvvisamente mi si accendono le lampadine. Come ieri sera vedendo su Rai Storia il film franco-canadese del 2006 dedicato a Maria Antonietta (come recita il titolo), evidentemente messo in onda per celebrare il 14 Luglio, giorno della presa della Bastiglia, festa nazionale in Francia e di tutti i repubblicani democratici del mondo…

Il film, girato per la televisione, da due onesti mestieranti, che ha come sottotitolo “La storia vera”, vede però come sceneggiatore, vero punto di forza del film, Jean-Claude Carrière, strettissimo collaboratore di Luis Buñuel ( “Diario di una cameriera”, “Bella di giorno”, “La via lattea”, “Il fascino discreto della borghesia”, eccetera). Carrière è scomparso quest’anno alla venerabile età di novant’anni.

L’età non è solo un dettaglio. Nato nel 1931, una specie di viaggiatore socialista nel Novecento rosso e nero, Carrière evidenzia nella sua sceneggiatura l’influenza dell’ impostazione marxista, per alcuni stalinista, di Albert Soboul. Storico che ha dominato per larga parte della seconda metà del Novecento gli studi francesi in argomento, proseguendo in qualche misura la linea storiografica giacobina e repubblicana con punte socialiste di Mathiez e Lefebvre. Pertanto, la scrittura di Carrière si muove all’interno di precise coordinate storiografiche.

Un approccio, che vede nella Rivoluzione una specie di lotta tra il bene e il male: tra la monarchia, decerebrata, dedita ai piaceri, e il buon popolo repubblicano, sobrio, sano per natura, di cui si approfitta la furba borghesia.

Perciò è ovvio che nel film la figura di Maria Antonietta finisca per gravitare tra l’infantilismo, le crisi di pianto e l’egoismo di classe. Il ritratto finale della regina, schiacciata dai grandi numeri del determinismo repubblicano-marxista, è quello di una specie di microscopica demente incapace di capire l’inevitabilità dei macroscopici movimenti collettivi dettati dalla rivoluzione e dal senso della storia.

Il punto è che l’infantilizzazione della regina, ma anche del re, Luigi XVI, non aiuta a capire le linee generali del processo politico e sociale allora in atto. La rivoluzione interrompe ricorrendo alla violenza un graduale e pacifico processo di trasformazione economica e di liberalizzazione dell’economia francese.

I “rivoluzionari” non sono che il rovescio della medaglia del cieco estremismo del tutto e subito. Da un lato si scorge la controrivoluzione preventiva del mondo aristocratico (alto clero incluso), negli anni che precedono il 1789, aristocrazia che non voleva rinunciare ai privilegi fiscali. Dall’altro, la rivoluzione, anzi il rivoluzionarismo, che voleva eliminare non solo i privilegi fiscali ma anche l’aristocrazia, e fisicamente. Rivoluzione, che tra il 1791 e il 1792, slitta dal liberalismo parlamentare al giacobinismo della ghigliottina.

Le crisi agricole, cui si accenna nel film, non sono il portato della dispendiosa vita di corte, ma il puro e semplice contraccolpo immediato di un processo di liberalizzazione, che presto avrebbe portato i suoi vantaggi. Si trattava solo di aspettare e di colpire, da subito, i privilegi fiscali di un’ aristocrazia che invece li difendeva ciecamente. Come auspicavano Turgot e Necker, per fare solo due nomi, non ascoltati, o comunque non compresi da Luigi XVI e Maria Antonietta.

Qui il punto debole della monarchia, incapace di capire l’importanza delle riforme per prevenire le rivoluzioni, non per infantilismo e leggerezza, come si mostra nel film seguendo lo schema repubblicano-giacobino, ma per fede, diremmo connaturata, in una costituzione politica assoluta che risaliva a Luigi XIV. Per contro, i due ministri vedevano con favore, soprattutto per pareggiare il bilancio dello stato, la costituzionalizzazione, anche fiscale, della monarchia, seguendo l’esempio britannico.

Per usare, la terminologia dei nostri giorni, la rivoluzione interrompe un processo, dal basso, di privatizzazione sociale, economica e politica dell’economia francese, di modernizzazione riformista, andando oltre l’assolutismo illuminato, insomma.

Per contro, come provano le opere di Tocqueville e Taine, e in seguito di Cobban e Furet, la Rivoluzione, o meglio l’estremismo giacobino, sbaragliando i riformisti (favorevoli a una monarchia decentralizzata, costituzionale e liberale), accentuerà il processo di rigida centralizzazione istituzionale della politica francese, iniziato con Luigi XIV.

La Rivoluzione non sarà altro che un gigantesco scontro tra queste due tendenze.

Vinceranno i centralisti, un’egemonia che, politicamente parlando, dura tuttora, magari in forma soft.

I centralisti nel 1793 isseranno idealmente sulle picche la teste del re e della regina, amanti dei carillon, per la gioia di un popolo infantile e feroce al tempo stesso, mandato poi a morire sui campi battaglia di mezza Europa.

Ovviamente sulle note della Marsigliese. Certo, più marziali di quelle di un carillon, ma non meno infantili. E forse ancora più pericolose. Come prova il disastro provocato nel Novecento dall’idea rivoluzionaria di “Nazione Armata”.

Carlo Gambescia