Kabul addio…

Sulla drammatica situazione dell’Afghanistan, vicenda che rischia di trasformarsi nel triste remake geopolitico della caduta di Saigon nell’aprile del 1975, rinviamo all’ ottimo articolo apparso su “Analisi Difesa” di Giorgio Battisti in cui sono ben analizzate le cause politiche e militari che hanno portato agli accordi di Doha del febbraio 2020 e al conseguente ritiro delle residue truppe occidentali (*).

Come può il sociologo inquadrare questa débâcle degli Stati Uniti e dei suoi alleati, non ultima l’Italia?

La guerra in Afghanistan, pur restando una bella fiammata d’orgoglio del dopo attacco alle Torri Gemelle, ricade, a causa del ritiro militare in atto, in una storica riduzione entro i suoi confini dell’Occidente euro-americano. Si chiama perdita di territorio, e resta un chiaro segno di decadenza geopolitica. Che ha le sue conclamate cause sociologiche.

In primo luogo, si tratta di un fenomeno di decrescita territoriale e morale, iniziato nella seconda metà del Novecento con i processi di decolonizzazione. Un processo tuttora in atto, nonostante, come dicevamo le fiammate delle due Guerre del Golfo, con l’appendice della liberazione dell’Afghanistan dal dominio talebano.

In secondo luogo, alla grande forza economica dell’Occidente euro-americano non corrisponde più da decenni – di sicuro dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica – una pari forza militare.

Detto altrimenti, tecnologicamente parlando l’Occidente potrebbe affrontare qualsiasi avversario, invece militarmente, in termini di forze da spendere sul campo, alcune remore morali di natura pacifista, mescolate a calcoli elettorali di tipo politico, non consentono, perché impopolari, un largo impiego di truppe sui possibili scenari di guerra.

Di qui il ricorso, come già avvenuto, a forze mercenarie, ridefinite compagnie di contractor privati. Oppure alla classica alternativa della formazione e specializzazione di forze locali, però non sempre affidabili e agguerrite. Nonché alla estesa e fin troppo fiduciosa applicazione di teorie pedagogico-politiche di trasformazione culturale delle popolazioni locali in chiave occidentale. Tecniche che però richiedono tempo come pure lo stabile tutoraggio militare sul campo.

Sociologicamente parlando, l’Occidente non vuole battersi più. Il militare è mal visto. Lo sforzo morale più alla moda consiste nella rivendicazione della pace universale. Si crede, magicamente, nella forza del contagio culturale e dei valori occidentali, sostenendo che alla lunga non possono non essere accettati da tutti.

In quel termine “alla lunga” si gioca il prestigio dell’Occidente: quanto alla lunga? Le transizioni culturali spesso richiedono secoli. In Afghanistan venti anni non sono stati sufficienti. E non potevano bastare per popolazioni con livelli culturali tipici dell’alto medioevo europeo. Diciamo che l’Occidente si ritira molto prima del raccolto finale. Come se, per fare un esempio, Roosevelt nel 1944 avesse dichiarato agli alleati di fare marcia indietro, di ritirarsi insomma, dopo lo sbarco in Normandia…

E in questo senso, nei suoi rapporti con il mondo, l’ Occidente oggi si accontenta del controllo economico e di salvaguardare le frontiere politiche. Ma neppure più tanto, come prova l’inesistente politica estera dell’Unione Europea, che non va oltre le sanzioni economiche e lo scaricabarile sulle politiche migratorie.

Più attenti invece sembrano gli Stati Uniti nei riguardi della impegnativa frontiera dell’ Oceano pacifico. Si tratta però, è bene ricordarlo, di una strategia puramente difensiva.

Probabilmente l’Afghanistan cadrà di nuovo nelle mani dei Talebani. Kabul addio, insomma.

L’Occidente euro-americano osserverà da lontano il disfacimento del regime filo-occidentale in un lago di sangue. Un Occidente, svagato, blasé, chiuso nelle proprie frontiere, in attesa dei prossimi passi della nuova classe dirigente fondamentalista. Un Occidente senza un progetto, senza un’idea, e soprattutto incapace di “pensare” militarmente il proprio destino.

Perciò, non è una sorpresa che sia finita così. Fin dall’inizio, si sapeva, che una volta spentasi la fiammata di generosità post attentato alle Torri Gemelle, l’Occidente avrebbe combattuto puntando sul risparmio delle forza militare, centellinando soldati.

Piaccia o meno, ma le truppe, nonostante i progressi tecnologici, restano sempre fondamentali per occupare e controllare il territorio conquistato. All’inizio, come in ogni guerra moderna, servono milioni di uomini, spesso dai modi rozzi e brutali – militareschi – capaci di intimidire gli autoctoni, ma anche di destarne nel tempo l’ammirazione, con la loro stessa presenza, che può allora farsi capillare, quindi ridotta.

Ma solo dopo, non prima e durante… Si pensi, come esempio negativo, all’esercito imperiale britannico, perfetta macchina bellica e di dominazione, che pure nell’Afghanistan dell’Ottocento dovette cedere il passo, proprio in ragione dei propri numeri ridotti.

Oppure occorrono, dove possibile, pesanti attacchi aerei, mirati o meno, per tenere, entro certi limiti, sotto scacco le popolazioni civili, usando l’altrettanto antica tecnica del bastone e della carota. Carota, modernamente intesa, come introduzione dell’educazione scolastica di tipo occidentale, di consumi crescenti, insomma di modernizzazione senza ritorno, garantita dall’ ampia presenza dei militari occidentali.

Ragioniamo come il Dottor Stranamore? Facciamo paura? Perché usiamo lo sporco linguaggio, non più di moda, del colonialismo a colpi cannnone? Bah… Decida il lettore.

In realtà, si tratta di una strategia, vecchia come il mondo, fondata sul numero e soprattutto sulla paura del numero. Che però l’Occidente non prende più in considerazione, per ragioni umanitarie ed elettorali. Ragioni indubbiamente nobili che però non aiutano a vincere le guerre e ad accrescere il rispetto verso l’Occidente, sul quale pesa ancora, e tremendamente, la definizione, attribuita a Mao, dell’Occidente americano come “tigre di carta”.

I Talebani, dove giungono, praticano la decimazione, mentre l’Occidente si ritira in buon ordine in nome della pace. Così ora va il mondo.

Certo, l’Afghanistan è lontano, ma la percezione di un Occidente che ha paura di battersi, chiuso nelle proprie frontiere a discutere di virus, pensioni e diritti Lgbt, può sempre accorciare le distanze. Purtroppo.

Carlo Gambescia

(*) Si veda qui: https://www.analisidifesa.it/2021/07/la-miopia-dellimpegno-internazionale-in-afghanistan/