Il calcio, malato di welfare

Il  calcio italiano, ridotto a diritto sociale,  soffre di welfarismo acuto.   Si tratta di  un fenomeno  al quale nessuno più si oppone, le società come i calciatori e i tifosi (*). Anzi si parla addirittura di “decommercializzare” il calcio.   

Si tirano  i ballo gli   enormi debiti, che sarebbero  frutto di  cattive gestioni societarie, veicolate da stipendi troppo alti e  stadi  semivuoti (ora del tutto vuoti).  

In realtà,  il problema fondamentale che ormai sfugge a tutti è quello dell’intrusione dei poteri pubblici, favorita da una  logica corporativa, condivisa da burocrati federali, presidenti politicizzati, calciatori sindacalizzati e tifosi con la tessera sanitaria.   

Solo per dire una. Il  limite  ai debiti ha un solo rimedio: il fallimento societario. Come impone il Codice Civile.  Introdurre regole che ancorano l’iscrizione ai campionati sulla base di fantomatici indici debitori e di liquidità,  significa puntare su regole che non esistevano neppure nella vecchia Unione Sovietica.  Per non parlare del tetto gli stipendi: roba da Ministero delle Corporazioni Fasciste. Che dire infine  delle spartizione ogni anno, con il bilancino pubblico,  dei diritti televisivi?  Roba da garante della concorrenza. Eppure non parla nessuno.

Il calcio soffre di una sola malattia che si chiama dirigismo politico. Che è il  sottoprodotto di una visione assistenzialista e  welfarista  delle partite come servizio sociale.  Roba da ASL. Evocando il “bene comune calcistico,  il  dirigismo della FIGC, un baraccone politicizzato,  pretende di sapere  cosa  sia  bene per “sottoposti” e “assistiti”: presidenti, calciatori e  tifosi.  Pertanto si è creato un circolo vizioso: la “torta” calcio rischia di farsi sempre più piccola, perché il patto corporativo tra stato e società distrugge   quel  sano  spirito concorrenziale,  che se lasciato  libero di volare, accrescerebbe invece le sue dimensioni. Insomma, quanto più si punta sul patto corporativo, tanto più si resta imprigionati nelle sue maglie, tanto più la torta calcio si rimpicciolisce.

La  prova  della dilagante e devastante mentalità corporativa,  statalista e welfarista  è rappresentata dal fatto che il discorso pubblico sul calcio, dai bar alle radio private, dai circoli dei tifosi alle alte sfere societarie, anche politiche, ruota inevitabilmente  intorno alla richiesta di regole e controlli sempre più stringenti e soffocanti.  Cioè, per dirla fuori dai denti,  si chiede al boia più corda per impiccarsi. Così è. E nessuno protesta. Non è forse un diritto sociale assistere alla partite a casa o allo stadio?     

Altro classico  esempio di passività societaria  è quello della costruzione dei nuovi stadi di proprietà. Che non procede proprio.   Invece di portare la cosa –  e non scherziamo –   davanti a un qualche tribunale dei diritti dell’uomo, le società di calcio  accettano in modo fantozziano  le più assurde richieste dei tirannelli comunali, federali e politici.  Questo succede perché le società non   vogliono   perdere il  favore  delle autorità. Non sia mai…  

Ultimamente è di moda imporre il dirigismo corporativo  evocando il “calcio sostenibile”. Si legge addirittura di un  “calcio ecologico” rivolto a salvare pianeta e pinguini…                                     

Il calcio avrebbe invece bisogno di maggiore libertà. Che dovrebbe essere reclamata dagli stessi presidenti, che invece sembrano vivere, e anche bene, all’ombra del potere. I primi nemici del calcio sono il dirigismo e l’ assistenzialismo, entrambi  frutto di connivenze intellettuali ed economiche a livello societario.  

Si dirà, che puntando sul laissez faire  molte società  fallirebbero, eccetera, eccetera. E che i tifosi, come talvolta si sente ripetere,  verrebbero privati del diritto all’uguaglianza di tifare e di quel diritto alla partecipazione che sarebbe l’anima nobile di ogni sport, calcio compreso.

Vecchio trucco: il patriottismo, come certo romanticismo welfarista,  anche sportivo, è l’estremo rifugio  delle canaglie. Il presidente burocrate – altro che imprenditore… – si difende ricorrendo alla mozione degli affetti.     

In realtà, ripetiamo,   che il tifo sia visto come  un diritto è  un altro inevitabile  portato negativo  del welfarismo dei nostri tempi. Detto altrimenti:   di una burocratizzazione  semisocialista  del capitalismo che  Schumpeter paventava come  cattiva redistributrice di assurdi diritti sociali. Di qui, anche  il diritto alla partita… Ci mancherebbe altro…  

Un processo degenerativo in cui  Schumpeter  scorgeva la morte di quella distruzione creatrice che è l’anima stessa di ogni libera  attività economica, calcio compreso.    

Perciò –  cosa da ricordare e di cui non si parla –   il welfarismo, regolando  il calcio,   non nega la sua natura economica,  non è contro il cosiddetto business, che alcuni  criticano evocando  un calcio romantico in fondo mai esistito, se non per giocoforza ai suo esordi ottocenteschi.  Il welfarismo  vuole “semplicemente” imporre, e impone, il business controllato dallo stato.  Altro che “decommercializzazione”.

Si tratta  invece  di  “commercializzazione”  con un padrone unico:  lo stato  che detta la linea economica tra gli applausi degli  interessati alla logica corporativa e spartitoria.   

“Più regole meno mercato”,  si declama gonfiando il torace.  E i tifosi “abboccano”.

 Così però si affossa il calcio.  E pure il capitalismo.

Carlo Gambescia

(*) Per un quadro della situazione, anche se di impronta welfarista si veda qui:  https://formiche.net/2021/05/calcio-industria-italia/