La società di protezione dal rischio divora se stessa

Il rischio non è assolutamente un prodotto della modernità, come invece sostiene Ulderick Beck in un famoso libro scritto nel 1986: “Risikogesellschaft” (“La società del rischio. Verso una seconda modernità”, trad. it. Carocci Editore 2000).

Mentre la teorizzazione del rischio lo è.

Ci spieghiamo meglio

Il rischio, come eventualità di subire un danno, è sempre esistito, invece la sua teorizzazione, come anticipato, è un fenomeno moderno, legato allo sviluppo dello stato, delle discipline statistiche, dell’assistenza e della previdenza sociale, complice quell’ ideologia della scienza quale forma di sapere assoluto, ritenuta miracolosamente capace di ridurre se non addirittura eliminare rischi di ogni genere.

Muovendosi all’interno di queste coordinate istituzionali e culturali, Beck ha sostenuto che il rischio va redistribuito democraticamente. Di qui, l’idea dello sviluppo di un welfare state, non più basato sulla distribuzione delle risorse per ridurre le distanze sociali tra le classi, ma sulla distribuzione del rischio sociale per ridurre i differenziali di rischio tra le diverse professioni e mestieri.

Insomma, la tesi è questa: quanto più diminuisce la capacità dell’individuo di ridurre il rischio sociale, perché le sue scelte dipendono da altri, tanto più dovrà intervenire la sicurezza sociale, creando una rete di protezione intorno all’individuo, un insieme di ammortizzatori sociali per porre riparo alle improvvise e brusche cadute.

Il che implica il continuo monitoraggio, l’introduzione di indennità e conseguenti controlli di fedeltà, la riqualificazione professionale, il sostegno psicologico, eccetera, eccetera. Insomma, la società del rischio, teorizzata da Beck, rinvia in realtà a una occhiuta società di protezione dal rischio.

Va da sé, che la società del rischio protetto, genera due conseguenze: la prima economica, legata alla elevata pressione tributaria per reperire crescenti e indispensabili risorse, pressione che a poco a poco rischia di farsi insostenibile; la seconda culturale, legata alla nascita di una mentalità collettiva che antepone la protezione al rischio, penalizzando interi settori economici. Dal momento che, mai dimenticarlo, il rischio imprenditoriale è direttamente proporzionale alla produzione di reddito netto (differenza tra costi e ricavi totali).

Di conseguenza: maggiore il rischio, maggiore il reddito. Pertanto quanto più la protezione del rischio riduce le quote di reddito, spremendo i contribuenti, tanto più cresce l’impoverimento sociale. È matematico.

Infatti, come si può intuire, la teoria di Beck racchiude una contraddizione di fondo: il rischio per essere tenuto sotto controllo implica che il rischio diminuisca. Ma con il rischio diminuiscono anche le risorse. Siamo davanti a una contraddizione in termini.

Il punto è che la società del rischio protetto non rispecchia solo le elucubrazioni di un sociologo come Beck, ma rappresenta una filosofia sociale, oggi diffusa e dominante, che come è avvenuto in occasione dell’epidemia, pardon pandemia, risulta capace di assumere un volto autoritario.

Non si evoca forse la protezione dal rischio epidemico? Imponendo una rete di protezione, così ampia e costosa, dal soffocare quella libertà di rischio che invece risulta fondamentale per accumulare le risorse economiche occorrenti? O, come si proclama, per garantire la protezione dal rischio epidemico?

Si dirà che il rischio epidemico, pardon pandemico, impone, eccetera, eccetera. Certo, però il meccanismo, ammesso e non concesso che sia impiegato per una giusta causa, è lo stesso. Cioè, risulta comunque fondato su una contraddizione di fondo.

Che ora però dovrebbe essere chiara. Quale? Che la società di protezione dal rischio, inevitabilmente, divora se stessa. Provoca più danni di quanti ne vuole evitare.

Si chiama effetto perverso delle azioni sociali: si vuole il bene, si ottiene il male.

Carlo Gambescia