Ischia, sociologia delle catastrofi

Il sociologo non può che scuotere la testa. Ci sono pagine della Naturalis Historia di Plinio il vecchio che andrebbero rilette. L’Italia, notava l’antico dotto , è circondata dal mare e attraversata in senso longitudinale da una catena montuosa che sembra non finire mai.

Di conseguenza, visto che l’acqua scende dall’alto verso il basso, e quando piove troppo, rovinosamente, e visto che il mare, fa del suo, rosicchiando coste, l’Italia già allora era a rischio. Parliamo di duemila anni fa.

Perciò la “catastrofe annunciata” di Ischia, notizia che oggi straripa sulle prime pagine, con conseguente indignata ricerca di colpevoli da additare al popolo (*), risale almeno all’Impero romano. E in particolare alla tendenza storica della popolazione peninsulare, per ragioni che oggi vanno sotto la denominazione di miglioramento della qualità della vita, a spostarsi dall’interno verso l’esterno: dai monti e campagne in direzione della città. Di qui, una natura che inevitabilmente ha fatto il suo corso sui monti poco popolati e sulle coste sovraffollate.

Sintetizzando, dietro un bimillenario fenomeno migratorio, si scorge il mito, più che giustificato, della città. Perché, in assoluto la città ha sempre portato progresso e benessere diffuso.

La controprova, di quanto diciamo, è nello spopolamento cittadino, con diffusione di fame e miseria, e per non pochi secoli, almeno fino alla seconda metà del IX della nostra era. Spopolamento che – ecco il punto storico e sociologico – seguì la dissoluzione e caduta dell’Impero romano, che, economicamente e modernamente parlando, era autarchico all’esterno e liberale all’interno. Diciamo cittadino e commerciante. Almeno fino a quando non arrivò al potere le dinastia militari dei Severi.

Cosa avrebbero dovuto fare i governanti italiani da Augusto a Mario Draghi? Deportare intere popolazioni verso l’interno secondo l’uso asiatico? La storia geologica è quello che è: l’uomo è il luogo in cui vive, ma anche il luogo da cui vuole scappare, con tutte le conseguenze, positive e negative del caso, spesso inavvertite e impreviste. Sembra si chiami libertà.

Un grande storico francese, Fernand Braudel, ha acutamente introdotto il fenomeno storico della lunga durata, rapportandolo alle condizioni geografiche e migratorio-demografiche, condizioni che permangono per millenni, anche come risposta dell’uomo dell’ambiente, nel bene come nel male.

Secondo Braudel, alla lunga durata, dei tempi geologici (ad esempio catene montuose longitudinali e coste) e demografici ( inclusi gli spostamenti di popolazione), si affiancano la media durata dell’ economia ( sistemi chiusi, sistemi con mercato e di mercato) e infine quella breve, se non brevissima, della politica (re, presidenti, battaglie e guerre).

Ora, per tornare, ai fatti di Ischia, si crede, additando i nemici e le pratiche contro il popolo (“abusivi”, “assessori corrotti”, “sanatorie”, eccetera), di poter contrastare la lunga durata dei tempi dell’elefante geologico-migratorio con le punture di zanzara dei tempi brevi della politica. Roba da ridere. Ma anche da piangere per la superficialità del sentire: perché, ripetiamo, alla lunga durata dei tempi geologici e demografici, si suppone di poter rispondere con i regolamenti comunali e i vigili urbani.

In realtà, l’unica misura politica che potrebbe ristabilire l’equilibrio diciamo coste-monti, è quella dello spostamento coattivo delle popolazioni. Diciamo della redistribuzione sul territorio anche delle attività economiche. Insomma, servirebbe un Gengis Khan. Il che però implica – si badi bene – la cancellazione della democrazia liberale, basata sulla libertà di movimento, di concorrenza, opinione, parola, pensiero, eccetera.

A dire il vero, le correnti ecologiste, animate da forti componenti autoritarie, secondi alcuni addirittura totalitarie, non disdegnerebbero di comportarsi come l’imperatore mongolo.

Perciò, in sintesi, la vera posta in gioco è quella del prezzo da pagare per continuare a godere della nostra libertà.

Quindi che fare? Assicurarsi, rimettersi a lavorare e non piagnucolare.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/quotidiani-italiani/ .