Giuseppe Culicchia, Walter Alasia e il lato oscuro della sinistra

Nulla da fare, purtroppo. Nella sinistra sembra persistere  un lato oscuro… Che fa veramente paura.  A questo pensavo  leggendo il libro di Giovanni  Culicchia dedicato al cugino Walter Alasia, giovanissimo membro delle Brigate rosse, di appena vent’anni,  che durante la sua cattura, uccise due poliziotti e venne ucciso a sua volta. Anno di grazia 1976.

Si potrebbe parlare di  una storia di ordinaria  violenza degli anni di Anni di Piombo. Anni in cui la sinistra radicale predicava a un’Italia immaginaria sull’orlo della rivoluzione, il valore catartico della lotta armata. Mentre la sinistra ufficiale (Pci e dintorni), da par suo, condannava i brigatisti rossi,  definendoli  fascisti mascherati. Per contro, giudici e forze di polizia facevano quel che potevano dal momento che i giudizi sul loro agire non erano concordi.                          

Perché? Si respirava un clima di violenza e di ribellione. E cosa peggiore, molti intellettuali, anche in vista, civettavano con l’idea di rivoluzione. La violenza non veniva condannata in modo unanime. Nei circoli dell’intelligenza, non solo di sinistra, si criticava e condannava  soltanto quella della polizia.  Mentre si giustificava la violenza terrorista  perché giudicata come la   giusta risposta di classe alla violenza di classe del sistema. Oppure, alla stregua del  Partito comunista, la si scomunicava a priori, retrocedendola a violenza fascista, evitando così di approfondire  le antiche ma sempre vive radici leniniste dei comunismo parlamentare.  Che erano le stesse dei brigatisti rossi.

Il libro di Culicchia  è un libro patetico, dove  il ritratto di Walter Alasia è quello del “compagno che sbaglia”: del giovane dai nobili ideali che sposò non tanto la causa sbagliata quanto la metodologia errata. In sintesi: se Alasia avesse militato nella Federazione giovanile del Pci, non in  Lotta Continua o in altro gruppi estremista, si sarebbe salvato.  

Culicchia, dopo  quasi cinquant’anni – ecco il lato oscuro della sinistra, rimasto tale evidentemente –  continua a credere nel principio leninista dell’estremismo terrorista come malattia infantile del comunismo.  Certo, Culicchia infiora i concetti di espressioni e languori postmoderni, ma la sostanza del  discorso  resta quella non del riformista – abito  che il partito comunista non ha  mai indossato, se non tatticamente –   ma del leninista che voleva e vuole  usare, invece del mitra,  le libertà politiche sul filo del rasoio della liberal-democrazia: richieste demagogiche, scioperi, picchettaggi, occupazioni, assemblearismo. E per quale scopo?  Lo stesso dei terroristi:  distruggere l’odiato sistema che praticava e pratica  la violenza di classe. Violenza dettata dal semplice fatto dell’esistenza da un lato dei padroni, dall’altro dei lavoratori. Violenza che cesserebbe di colpo  con la trasformazione della società da capitalista in socialista.

Ecco il  trait d’union ideologico tra partito comunista e  terrorismo brigatista.  Ecco il  lato  oscuro della sinistra,  che  Culicchia –  lo faccia o meno intenzionalmente –   ribadisce nel suo libro.  

Insomma, nessun cedimento da parte sua alle ragioni di una società liberal-democratica. Sei anni prima della morte di Alasia il Parlamento aveva approvato  lo Statuto dei Lavoratori, allora fortemente avversato dal Pci. Che vedeva in esso, neppure si fosse nella Russia del 1917, una vergognosa concessione al riformismo dei traditori socialdemocratici. Robaccia riformista degna di un Kerenskji.

Così  stavano le cose nel 1976. E così sembrano  stare ancora oggi, anno di grazia 2021. Almeno per certa sinistra,  visto che Culicchia pare  accettare la preistorica ma pericolosa tesi antiriformista  dell’assoluta identità di idee tra liberalismo e fascismo.  Di qui,  per  certi intellettuali di ieri come di oggi, l’esistenza di una  pura e semplice  questione di metodo e di tempi.   

Che il ventenne Walter Alasia  non aveva compreso bene.  

Carlo Gambescia