L’imbecillità della digital tax

Socialisti, welfaristi e  compagnia cantante, non ultimi i populisti, non  hanno mai capito nulla di una cosa che si chiama  traslazione dell’imposta.  Nel senso che  ogni euro di tributo in più si traduce inevitabilmente, per trasferimento del costo aggiuntivo tributario dall’ impresa al prodotto finale, in crescente costo aggiuntivo per il consumatore finale, per chi compra insomma.  Che, innanzitutto, comprerà sempre  di meno: quindi si avrà inevitabilmente caduta della domanda. Non solo: si avrà anche il dirottamento dell’offerta. Perché le imprese, soprattutto le multinazionali,  riallocheranno subito  le proprie risorse in direzione di aree dove i tributi  sono più bassi o pari a zero. Certo, i welfaristi sognano un Welfare State Mondiale che, in nome del totalitarismo fiscale, pareggi e tassi tutte le nazioni. Cosa per fortuna ancora lontana. Anche se, purtroppo, mai dire mai…

I cosiddetti “giganti del web”, Google in testa, sembra invece abbiano accettato  obtorto collo l’idea della digital tax.  Cosa che  a prima vista appare curiosa: perché infilare la zampetta nella tagliola  preparata dal G20 dei Ministri delle Finanze?  In realtà, la digital  tax –  cosa che non si dice –  ha un importante e pericoloso risvolto per il consumatore: quello – molto ambito dai giganti del web –  di trasformare tutti i servizi forniti ai consumatori da gratuiti a pagamento, versando, se ci si passa l’espressione, una bella   “stecca” allo stato. Il che – la commercializzazione – ha una sua logica economica: quella del nessun pasto è gratis. Logica che però non dovrebbe essere frutto di una costrizione pubblica che invece non ha nulla a che vedere con la legge della domanda e dell’offerta. Diciamo che il “gigante del web” fa buon viso a cattivo gioco, provando a trasformare – così crede, sbagliando – una contrarietà in una opportunità.

Richiamiamo  l’attenzione invece sulla logica perversa della tassazione. Logica che incide su due versanti: da un lato,  spinge le imprese a  monetizzare tutti i servizi per contenere i costi; dall’ altro, spinge lo stato a intervenire con provvedimenti di tipo sociale, che però  implicano irrimediabilmente l’abbraccio  burocratico e occhiuto del fisco. 

Per fare un esempio, i big del web decidono di far pagare i servizi digitali?  Allora lo stato, che ha creato il problema,  tassando le grandi  imprese del web e spingendole, eccetera, eccetera,  favorisce la detassazione per alcune fasce sociali a reddito basso.  Di qui però  la necessità di controlli burocratici, che vanno ad appesantire la spesa pubblica. Appesantimento  che  implica l’introduzione di nuovi  tributi più alti, e di conseguenza l’appesantimento del prezzo di vendita dei beni finali da parte dei big del web. Beni finali sui quali vanno a gravare le tasse dirette (digital tax) e indirette (legate all’ appesantimento  dei costi di impresa).  Anche perché – attenzione  – l’aumento dei ricavi di impresa  è puramente nominale.  Va detto infine  che esiste anche un’ inflazione da offerta, quindi da ricavi, sulla quale va a incidere l’inflazione da tributi.  Fenomeno cosiddetto dell’illusione finanziaria, perché, come appena detto, di natura nominale.

A fronte di questo, non sarebbe allora  meglio lasciare le cose come sono e  laisser faire  al mercato, invece di distorcere la legge della domanda e dell’offerta.  No, rispondono socialisti, welfaristi e populisti, non è possibile per ragioni di giustizia sociale: chi più ha più deve dare…

Bella giustizia, come abbiamo visto. Imbecilli.

Carlo Gambescia                   7