Israeliani, palestinesi e la logica autolesionistica dello Stato-Nazione

In questi giorni si torna a discutere del  conflitto tra palestinesi e israeliani, conflitto mai cessato, che  rischia sempre di estendersi  pericolosamente all’intera area geopolitica mediorientale.  Si possono leggere al riguardo numerose analisi, molte di parte, anzi, diremmo, soprattutto di parte .

Per quale ragione? Perché la maggior parte degli osservatori non riesce a liberarsi – concettualmente – dalla logica autolesionistica dello Stato-Nazione. Sicché sfugge loro una questione fondamentale.

Quale?  Si parta intanto da questa osservazione tratta da una interessante per quanto  rapida  ricostruzione della  intera vicenda.

«Due forze inamovibili presero quindi a scontrarsi: la volontà degli ebrei di proteggere il sogno di una patria, e il desiderio dei palestinesi di riprendersela. Nel tempo, potenze rivali come l’Arabia Saudita e l’Iran trovarono in Israele un avversario comune. E mentre l’Olp si mostrò disponibile a un compromesso (con il rilancio della soluzione a due Stati) gruppi islamici radicali, come Hamas e Hezbollah, impugnarono le armi»(*).

“Due forze inamovibili”… “Due Stati”… Si rifletta bene sul punto. Si parla dell’idea, “applicata” fin dall’Ottocento europeo dello Stato-Nazione:  “il sogno di una patria”.  Idea  di origine rivoluzionaria, nata a Valmy,  che, per mimesi e reiterazione, fu ripresa e sviluppata, oltre che dai Risorgimenti dell’Ottocento,  dal movimenti anticolonialisti del Novecento, nonché con enfasi mostruosa dalla bestia totalitaria.

Ora,  l’idea di decolonizzazione “armata” collegata a quella di stato-nazione è qualcosa di sociologicamente micidiale. Dal momento che implica – inevitabilmente – l’uso del terrorismo e di conseguenza la scomparsa di qualsiasi forma di mediazione o flessibilità.

Sotto questo aspetto la vicenda dell’Eta basca è esemplare: il terrorismo come ” el simple arte de matar” (**). Insomma come “arte” , per le inevitabili reazioni, dello sterminio reciproco.

Tutti gli stati nazionali, più o meno, nel loro processo di formazione  sono macchiati  da questo  peccato originale. Ma con esiti differenti.  Dove il liberalismo è riuscito  a mitigare e pacificare l’ottica dello Stato-Nazione attraverso il buon uso della sue istituzioni puntando sul decentramento,  il fenomeno terroristico, pur riaffacciandosi di tanto in tanto, è rientrato nel quadro della regionalizzazione politica e pacifica.

Si pensi alle esperienze, olandese,  belga e svizzera,  ma non quella balcanica. Per fare un esempio italiano, Cavour, riuscì a cooptare, portandoli dalla propria parte, che era quella delle istituzioni liberali e non del terrorismo,  non pochi mazziniani. Purtroppo la morte precoce gli impedì di portare a termine  il processo di  integrazione delle varie correnti risorgimentali.    

Il punto è che l’approccio anticolonialista, provocato da un approccio coloniale, presunto o meno,  implica inevitabilmente l’uso del terrorismo. Di  qui, la violenza e la  mancanza di flessibilità nelle trattative per fuoriuscirne.  Le esperienze dei processi di decolonizzazione in Africa e Asia, mostrano che fin quando hanno parlato  le  armi, (si pensi solo all’Algeria, o ai domini olandesi e in parte  britannici) nessuno dei due contendenti si  è sottratto alla logica del colpo su colpo.  

Ora, qui non si sostiene che Israele sia uno stato coloniale, né che pratichi una forma di violenza colonialista nei riguardi dei palestinesi. Il colonialismo ha altre tradizioni, politiche, economiche e culturali,  di trasmissione-rifiuto della cultura coloniale, che non si ritrovano nel conflitto tra palestinesi e israeliani.   

Tuttavia il modello di comportamento politico palestinese (come in qualche misura, e forse a ragione,  fu quello di alcune frange armate di ebrei nei riguardi dei soldati britannici) percepisce Israele come uno stato colonialista. Di qui, piaccia o meno,  l’uso della violenza e le inevitabili reazioni israeliane.

Qual è il punto fondamentale?  Che fino a quando non si uscirà dalla logica dei due stati due nazioni, ossia dello stato-nazione, il terrorismo, come “simple arte de matar” resterà l’unica opzione.

Si dovrebbe invece ragionare in termini di un unico stato, capace di combinare insieme le diverse tradizioni, nel quadro delle  libertà amministrative e politiche.  Un processo di integrazione nella libertà come quello auspicato e parzialmente sviluppato dal nostro Cavour.

Il che non è facile, se  non addirittura impossibile,  in parte, per l’ascesa dei fondamentalismi, in primis quello islamico, e in parte perché non si capisce (anche  in alcuni settori, poco illuminati,  della politica e della cultura israeliane) che l’immagine dello stato di Israele come stato coloniale va per cosi dire smontata.    

E qui, sorge un problema, a nostro avviso, quasi irrisolvibile. Quale?  Che un Cavour  israeliano si potrebbe anche trovare. Ma un Cavour palestinese?  

Carlo Gambescia                  

 (*) Qui: https://www.focus.it/cultura/storia/israele-e-palestina-la-storia-di-una-terra-contesa

(**) Si veda in argomento l’ ottimo saggio di Gaizka Fernández Soldevilla , scaricabile qui:https://dialnet.unirioja.es/servlet/articulo?codigo=4962938