Giuseppe Conte, uno “splendido” discorso…

Della crisi in atto, che oggi culminerà con il voto a rischio al Senato, possono essere date due spiegazioni. La prima che si può trovare su tutti i giornali, ristretta alle valutazioni sugli  equilibri politici interni ed esterni al governo populista. Diremmo, un’analisi superficiale, che ignora, per dare largo spazio al colore e ai retroscena,  il perché l’Italia si ritrovi governata da tre anni da un mediocre professore universitario, catapultato a Palazzo Chigi nel nome del nuovismo populista. Dal quale però, come sembra, non vuole essere essere sfrattato, comportandosi come altri vecchi inquilini…

Dicevamo di  una seconda spiegazione. Quale? Un buon appiglio è in un passo  del discorso di Conte, dove si accenna alla sua volontà di tornare al proporzionale. Ma come?  Un governo azzoppato  che  enfatizza la sua missione di storico  bastione dinanzi al morbo che impazza si preoccupa di cose, per ora  di nessun conto, come  la  legge elettorale?

Qui veniamo alle  radici lontane della crisi, alla seconda spiegazione insomma.

L’ “Avvocato del Popolo” ha semplicemente lanciato un messaggio, neppure tanto cifrato, a “Forza Italia”, partito in caduta libera. Che per non essere schiacciato, via maggioritario (seppure spurio), dall’alleanza Salvini e Meloni, scorge nel ritorno al proporzionale secco l’ancora di salvezza per sopravvivere in uno spazio protetto al centro, magari dentro un futuro governo di coalizione di centro-sinistra.  Di qui – come spera Conte –  la tentazione per Berlusconi di favorire la permanenza a Palazzo Chigi del governo giallo-rosso magari, partendo da un aiutino proprio  oggi in Senato.

Ovviamente, le cose potrebbero andare in modo differente. Il punto però è che negli ultimi ventotto anni, si sono susseguite  quattro leggi elettorali:  Mattarellum, 1993; Porcellum, 2005;  Italicum, 2015, legge decapitata dalla Corte costituzionale; Rosatellum bis, 2017. In pratica, ogni governo, e di riflesso ogni schieramento, ha  tentato di fabbricarsi una legge elettorale su misura.

Il che spiega, come i partiti, tutti i partiti, siano in realtà  venuti meno all’accoglimento di quel fattore di stabilità rappresentato dalla neutralità condivisa –  per parlare difficile –  della legge elettorale, sia essa proporzionale, maggioritaria o mista (come l’attuale).

Nella Prima Repubblica un patto del genere tra laici, democristiani, socialisti e comunisti esisteva: l’unico tentativo di riforma nel 1953 (introduzione di un premio di maggioranza) fu bocciato dagli elettori, per poco, ma fu bocciato. Si può dire che Paese legale e Paese reale (per usare un’espressione classica) fossero in perfetta sintonia sulla natura neutrale delle regole del gioco,  rappresentate  in fase di formazione della rappresentanza dalla legge elettorale.

Pertanto Conte, che gioca a fare lo  “splendido” (se ci si passa l’espressione), continua invece a muoversi come uno dei tanti politici della Seconda Repubblica, prontissimo  a giocare slealmente, cambiando la legge elettorale, pur di restare al governo.

Ecco il vero punto:  le radici politiche della crisi sono nell’assoluta mancanza di fair play. Ci si rifiuta, per pure ragioni di potere, di valorizzare, favorendo la stabilità del sistema liberal-democratico,  la dinamica neutralizzante della legge elettorale.

Pesano ovviamente  antiche “tare”, che possono farsi  risalire al fascismo e all’antiparlamentarismo  tra Otto e Novecento.

In sintesi:  non si capisce o non si vuole capire: 1) che cambiando ogni volta la legge elettorale si ridicolizza agli occhi dell’elettore la dinamica della rappresentanza, cardine della democrazia liberale, favorendo così la frattura tra Paese legale e Paese reale, così cara ai populisti; 2) che le regole non possono essere usate come risorse politiche, perché in questo modo, senza regole condivise ( quindi regole viste come fini comuni e non come puri mezzi da scagliarsi gli uni contro gli altri), tutto è permesso. Anche l’abbattimento della democrazia parlamentare.

Magari in modo soft, alla Conte insomma.  Tra le righe.

Carlo Gambescia