L’appello al popolo è quasi sempre un appello alla nazione come comunità di credenti. Ma in che? In qualcosa che nessuno sa definire bene. Le tradizioni storiche? Ma quali? Ogni corrente politica ne ha una che si oppone alle altre. La lingua? Ma quale? Perché di regola, o quasi, la prima lingua è il dialetto. E i dialetti non sono mai pochi. E non solo in Italia.
In realtà, quando si parla di senso di appartenenza si attribuisce alla nazione un valore improprio, confondendo il gruppo primario, ascrittivo, ben localizzato (la famiglia, il villaggio, la città) con i gruppi secondari, acquisitivi, che si sovrappongono al gruppo primario (ad esempio mestieri e professioni). Le appartenenze sono quindi molteplici e stratificate, non sempre unificate. Non esiste una specie di catena evolutiva, inevitabile e progressiva, che va dal villaggio alla nazione.
Sotto questo aspetto l’appartenenza a due entità sociali come la nazione e il popolo, è quanto di più artificiale possa darsi in natura sociale. Sono costruzioni intellettuali. La prima risale alla Rivoluzione francese, i cui capi, in particolare tra gli estremisti, inventarono l’idea di nazione armata. La seconda rimanda invece al romanticismo, che attraverso i suoi letterati concepì, praticamente a tavolino, quella di popolo.
Idea, quest’ultima, che insieme a quella di lingua comune (altro prodotto letterario), trovò il suo momento di fusione nelle ottocentesche guerre per l’indipendenza nazionale, che saldarono “sui campi di battaglia” le idee di popolo e nazione armata.
Un miscela intellettuale esplosiva, come insegna la sanguinosa storia del Novecento. E per una semplice ragione: il confine tra idea di nazione e di nazione armata, tra patriottismo e nazionalismo ha sempre avuto contorni labili. Un specie di frontiera mobile dove in base al contesto storico e ideologico, altrettanto mutevole, i buoni, di volta in volta, indossano gli abiti dei cattivi e viceversa.
Si dirà che la nostra è una lunga premessa, forse troppo. Ma come non pensare a tutto questo a proposito dell’espressione “popolo del calcio”? Tornata di moda in occasione degli Europei di calcio?
L’espressione rimanda a una specie di “nazionalismo buono”, apparentemente innocuo, che non dispiace alla sinistra, e che di solito viene opposto a quello “cattivo” dei militari e dei politici di destra. Insomma di qua i buoni tifosi del calcio, di là i cattivi sponsor della guerra.
In questi Europei, post (o quasi) Covid, il tifo del “popolo del calcio”, stando a certi pseudo epici spot televisivi, sembra addirittura essere diventato un momento di rinascita, addirittura catartico. Quindi, per semplificare, una cosa buona.
In realtà, seppure privo di zanne (per il momento), il nazionalismo, ancora peggio quando collegato all’idea di popolo, altrettanto vaga, rivela sempre natura oppressiva.
Esageriamo? In realtà, intorno agli Europei si è subito creata una specie di pressione sociale, da Mattarella in giù. Un clima pesante, per cui chiunque rifiuti di tifare Italia rischia di essere additato come nemico pubblico del popolo e della nazione. Si provi, tra amici a colleghi, a “parlare male” degli Europei… Si verrà subito accusati di intelligenza con il nemico No Vax. La tremenda logica amico-nemico del nazional-populismo non cambia. È la stessa sui campi di campi di battaglia come su quelli di calcio.
Come si può non seguire in tv la partita della nazionale? Come si può non gridare Italia- Italia-Italia? Magari dagli spalti, se si è fortunati? Una squadra nazionale che vincendo farà uscire l’Italia dal crisi? Come si può essere così antipatriottici e impopolari rifiutando di partecipare alla grande kermesse nazional-populista del pallone ? Soprattutto dopo tanti sacrifici condivisi insieme durante l’epidemia, pardon pandemia?
Insomma, si danno come scontate alcune cose: 1) che la “guerra” contro il virus, come del resto è stata presentata, non contempli l’obiezione di coscienza, esercitata da non pochi italiani; 2) che a tutti piaccia il calcio, cosa già di per sé dubbia, e che soprattutto “il popolo italiano” sia disposto a tramutarsi, come per incanto, in una folla disciplinata di tifosi con il tricolore tra le mani; 3) che i successi della nazionale di calcio facciano dimenticare la gestione a dir poco autoritaria dell’epidemia, pardon pandemia, un approccio militaresco tra l’altro ancora in corso.
In realtà, siamo davanti alla riprova sociologica del celebre detto di Samuel Johnson, grande scrittore inglese vissuto nel Settecento, prima del diluvio nazional-rivoluzionario e romantico. Un pensatore preveggente che definì “il patriottismo come l’ ultimo rifugio delle canaglie”.
E per oggi è tutto.
Carlo Gambescia