È possibile un socialismo liberale?

Nell’articolo di ieri, prendendo spunto dalla vicenda Craxi, abbiamo sottolineato l’assenza in Italia, sul piano delle tradizioni politiche, di una sinistra socialdemocratica, riformista, non anticapitalista.

E qui si faccia subito attenzione. Perché una forza politica socialdemocratica non si può definire liberal-socialista. E spieghiamo subito perché.

L’ “etichetta” liberal-socialista rinvia all’idea, sviluppatasi in particolare tra le due guerre mondiali (sullo sfondo delle dittature di destra come di sinistra), di coniugare la libertà “dei liberali” (dei diritti individuali politici ed economici) con un socialismo non collettivista (attento in particolare ai diritti civili e soprattutto sociali). Per l’Italia, si possono ricordare le figure canoniche dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, due vite tragicamente spazzate via dal fascismo.

Il punto è che, storicamente parlando, il liberal-socialismo (o il socialismo liberale, in base all’importanza o superiorità attribuita all’uno o all’altro sostantivo:il che spiega anche l’uso del trattino) non ha mai risolto, sul piano pratico, il suo rapporto con il ruolo dello stato.

All’inizio, in linea teorica, il liberal-socialismo, puntava su una società “autogestionaria” in cui lo stato era giudicato un gruppo sociale tra gli altri gruppi sociali, al centro di un perfetto equilibrio economico-sociale.

Al fondo c’era l’idea liberale della sostituzione ( o comunque forte affiancamento) del laissez faire tra gli individui (liberalismo) con il laissez faire tra i gruppi sociali auto-organizzati (socialismo). Sul punto scrisse cose interessanti lo stesso Carlo Rosselli, per limitarsi al pensiero sociale italiano.

Per contro la socialdemocrazia, per tradizione (e qui si pensi al riformismo di Turati o della prima socialdemocrazia tedesca), ha sempre visto nello stato un importante vettore di ogni trasformazione sociale, soprattutto sul piano redistributivo, in chiave giuridica, amministrativa, fiscale e della spesa pubblica.

Al fondo c’era l’idea, a differenza del liberal-socialismo, dell’intervento pubblico fin dove possibile, insomma senza strangolare il mercato.

Per capirsi: se il liberalsocialista credeva nell’autoriforma sociale dal basso, il socialdemocratico, si imponeva di riformare la società dall’alto.

Storicamente parlando, soprattutto nel secondo dopoguerra, i governi socialisti, un poco ovunque, hanno recepito la lezione socialdemocratica, puntando su una legislazione sociale avanzata. In Italia, il partito comunista non fu mai né socialista liberale (o liberal-socialista), né socialdemocratico. Di qui il suo tragico amletismo.

I socialisti invece, a poco a poco, sposarono la causa socialdemocratica. Craxi, con pesanti limiti anche caratteriali, tentò di reintrodurre in un partito socialista socialdemocratizzato (neppure del tutto, però: si pensi alla sinistra socialista) elementi liberal-socialisti.

Attenzione però: non nel senso dell’autogestione del sociale, ma dei diritti civili e del rispetto delle libertà economiche. In qualche misura, Craxi, ideologicamente parlando, precorse, la vulgata liberal-socialista dei Macron, dei Sánchez dei Letta e dei Draghi per fare alcuni nomi importanti.

In qualche misura, Craxi si è vendicato, almeno in parte, dei suoi persecutori, dal momento che la politica dei vari partiti, sorti dalle ceneri del partito comunista, o comunque nel clima scaturito dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ha sposato la causa liberal-socialista dei diritti civili e sociali del partito del Garofano negli anni Ottanta. Diciamo però sposata a metà.

Perché? Qui viene l’aspetto più interessante. Oggi siamo davanti a un socialismo liberale a forte impronta socialdemocratica, che vede nello stato il dominus politico-economico. Non più autoriforma del sociale dal basso, ma riforme, per quanto in nome dei diritti, dall’alto. Di qui fiscalismo, redistribuzione, eccetera, eccetera.

Va anche sottolineato che l’importanza attribuita al ruolo dello stato resta il trait d’union tra lo stato socialdemocratico e lo stato autoritario. Se nel progetto liberal-socialista, c’è un elemento anarchico, in quello socialdemocratico, ce n’è uno autoritario.

Attualmente, dove governa la sinistra, abbiamo una socialdemocrazia mascherata da liberal-socialismo. Tradotto, si parla solo di diritti, ovviamente calati dall’alto, e non di autoriforma del sociale. Le politiche fiscali e redistributive di Macron ne sono un esempio tipico. Dal punto di vista liberale, si potrebbe parlare di liberalismo macro-archico (*)

Esiste una via al socialismo liberale? Cioè a un socialismo non burocratico che rifiuti di dire sul ruolo dello stato le stesse cose che potrebbero dire un fascista, un comunista, un populista?

Diciamo che è questione di fede piuttosto che di ragione. Perché la società per autoriformarsi, ha necessità che lo stato faccia molto più di un passo indietro. Non è questione di creare “le condizione per”, bensì di accettare – ecco l’atto di fede – il rischio che vengano meno coperture politico-sociali, ambite dagli stessi cittadini, sull’implementazione delle quali l’attuale stato socialdemocratico (nei fatti) e liberalsocialista (a parole) ha costruito e costruisce il suo consenso.

Le transizioni non sono mai indolori. Quanto “dolore” sono disposte ad accettare le nostre società per passare dal socialismo burocratico al socialismo liberale?

Carlo Gambescia

(*) Si veda il nostro “Liberalismo triste. Un percorso: Da Burke a Berlin” : https://www.ibs.it/liberalismo-triste-percorso-da-burke-libro-carlo-gambescia/e/9788876064005